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Cos’è la malattia di Anderson Fabry?
La malattia di Anderson Fabry è un disordine genetico dovuto al deficit parziale o totale dell’enzima alfa galattosidasi, responsabile del metabolismo dei glicosfingolipidi.
Tali sostanze, in genere eliminate all’interno delle cellule a livello lisosomiale, si accumulano divenendo così responsabili delle modifiche a catena che si verificano a carico di tessuti ed organi.
La patologia ha una ereditarietà di tipo X-linked, cioè correlata al cromosoma X per cui, nonostante sia uomini che donne possano essere colpiti, sono soprattutto i maschi a manifestare i sintomi più gravi.
Sintomi e segni tipici della patologia
Clinicamente la malattia presenta manifestazioni diverse in base all’età del paziente: nelle prime tre decadi di vita predominano i sintomi a carico del sistema nervoso periferico mentre dopo i trent’anni è più frequente il coinvolgimento renale, cardiaco e cerebrovascolare.
Tra i sintomi più frequenti ricordiamo:
- acroparestesie, ossia dolore alle estremità degli arti dovuto al danno a carico dei nervi periferici;
- angiocheratomi, piccole papule cutanee ipercheratosiche di colore rosso;
- nausea, diarrea;
- acufeni (percezione di rumori quali fischi, ronzii, fruscii) ed alterazioni dell’udito;
- astenia (facile affaticabilità);
- cornea verticillata, evidenti opacità corneali in assenza di compromissione della capacità visiva del paziente;
- ictus, episodi ischemici transitori;
- insufficienza renale;
- ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro, ossia un ispessimento omogeneo e diffuso delle pareti ventricolari con possibile comparsa di dispnea, angina e palpitazioni.
La compromissione dell’apparato cardiovascolare legata alla malattia di Fabry, consiste in una ipertrofia ventricolare di grado lieve-moderato, in assenza di una dilatazione significativa del ventricolo stesso e con una funzione sistolica (capacità contrattile) inizialmente conservata.
Nel tempo però, la patologia può progredire portando ad un quadro di scompenso cardiaco conclamato.
La funzione diastolica, ossia la capacità di rilasciamento del cuore, risulta spesso compromessa così come possono manifestarsi vizi valvolari a carico dell’aorta e della mitrale.
L’accumulo di glicosfingolipidi a livello del sistema di conduzione del cuore infine, può provocare numerose alterazioni del ritmo cardiaco, tra cui bradicardia sinusale, blocchi atrioventricolari, aritmie sopraventricolari e ventricolari.
È importante ricordare che tali alterazioni possono comparire anche prima di una chiara ipertrofia ventricolare sinistra.
Dal punto di vista clinico, possiamo distinguere due forme della patologia: la forma classica che si manifesta con il caratteristico corredo sintomatologico fino ad ora descritto e quella atipica.
Quest’ultima che presenta un esordio tardivo, è caratterizzata da un’attività enzimatica residua minima e dalla comparsa del danno cardiologico e renale in assenza della restante sintomatologia.
Come si pone la diagnosi?
Il sospetto clinico della patologia è confermato dal dosaggio dell’attività dell’enzima alfa galattosidasi e dall’analisi molecolare del gene che lo codifica.
A questo proposito dobbiamo però ricordare che poiché il suddetto gene è collocato sul cromosoma X, negli individui maschi in cui viene evidenziata l’assenza o la ridotta attività enzimatica è possibile effettuare la diagnosi, mentre nelle donne è necessaria l’analisi genetica.
La donna che possiede un corredo cromosomico XX , è soggetta fisiologicamente al fenomeno della “lyonizzazione del cromosoma X”, ossia alla disattivazione casuale di uno dei due cromosomi.
Questo processo, essenziale per evitare la sovra espressione genica, può comportare il riscontro di normali livelli enzimatici in donne affette, giustificando in questo caso la necessità della genotipizzazione per la diagnosi.
Di notevole importanza è effettuare una diagnosi precoce del coinvolgimento cardiaco nel paziente con mutazione genetica accertata.
La compromissione cardiologica del paziente asintomatico deve essere valutata ogni 12-24 mesi tramite l’ausilio di un’ ecocardiogramma che permette di studiare la funzione sisto-diastolica e gli spessori della camera ventricolare.
Un elettrocardiogramma a riposo e un monitoraggio elettrocardiografico delle 24 h secondo Holter sono utili per diagnosticare l’eventuale comparsa di aritmie.
Il paziente sintomatico invece, necessita di indagini diagnostiche più approfondite, basate ad esempio sulla risonanza magnetica cardiaca che evidenzia la presenza, localizzazione ed estensione delle aree di fibrosi correlabili con la severità del coinvolgimento miocardico.
Le opzioni terapeutiche attualmente disponibili
La terapia enzimatica sostitutiva (ERT) è stato il primo trattamento introdotto per la patologia e consiste nella somministrazione dell’enzima mancante o deficitario.
È stato dimostrato infatti che la ERT è in grado di ridurre l’ipertrofia ventricolare sinistra, migliorare la funzionalità cardiaca tramite la rimozione dei depositi di sfingolipidi e stabilizzare la progressione del danno renale.
La sua efficacia risulta notevolmente aumentata se somministrata fin dalle fasi più precoci della malattia.
Alla terapia sostitutiva deve essere associata una terapia cardiologica specifica, basata sulle manifestazioni cliniche del paziente:
- i betabloccanti possono essere utili in caso di sintomi legati all’ipertrofia ventricolare sinistra (dispnea, angina, palpitazioni) dopo aver valutato l’assenza di eventuali controindicazioni come la bradicardia o i blocchi atrio ventricolari;
- gli ACE inibitori ed i sartani invece, sono efficaci nel contrastare il rimodellamento e la fibrosi cardiaca.
Risulta infine, utile impostare una terapia analgesica per il controllo del dolore neurologico ed una specifica terapia nefrologica in caso di insufficienza renale.
La seconda opzione terapeutica attualmente disponibile è rappresentata dagli “chaperoni” farmacologici, piccole molecole che si legano al sito attivo dell’alfa galattosidasi stabilizzandolo e consentendone il trasporto all’interno dei lisosomi dove potrà svolgere la sua funzione.
La terapia chaperonica è la prima terapia orale introdotta per il trattamento della malattia di Fabry, ma ha il limite di funzionare solo in presenza di mutazioni geniche specifiche.
Contatta l’esperto in merito a questo argomento.
Dott.ssa Federica Verrillo
Cardiologo in Formazione
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali
Malattie dell’Apparato Cardiovascolare
Università della Campania Luigi Vanvitelli
AORN Monaldi Napoli – AORN Sant’Anna e San Sebastiano Caserta
Revisione a cura del: Prof. Giuseppe Limongelli
Professore associato
Unità di Malattie genetiche e Rare Cardiovascolari
Università della Campania “Luigi Vanvitelli”,
AORN Colli, Ospedale Monaldi, Napoli, Italia
Institute of Cardiovascular Sciences,
University College of London, London, UK